Il “mio” Wittgenstein
Quando si è a corto di argomenti, oltre a tacere (che sarebbe l’opzione preferibile, peraltro auspicata nel finale dell’opera che segue qui sotto), si può fare ricorso a qualcosa che si è scritto tempo addietro, con tutti i rischi che ciò comporta. Nello specifico, pubblico di seguito due pseudo-recensioni che scrissi prima di aprire questo blog e che, quindi, alla pari di grandi romanzi, non hanno trovato spazio “quassù”, se non all’interno della sezione “Letteratura”, che per ovvi motivi e comprensibili ha meno visite rispetto agli articoli quotidiani. L’argomento è Ludwig Wittgenstein, il mio Wittgenstein, quello che ho apprezzato da lettore appassionato, non da studioso o esperto. Aggiungo che rileggere i miei stessi articoli, a distanza di tempo, mi ha un po’ stranito, oltre che fatto dubitare (fortemente) di avere scritto cazzate. Comunque, tant’è, ecco il mio Wittgenstein.
TRACTATUS LOGICO-PHILOSOPHICUS
“Questo libro, forse, lo comprenderà solo colui che già a sua volta abbia pensato i pensieri ivi espressi – o almeno, pensieri simili – . Esso non è, dunque, un manuale – . Conseguirebbe il suo fine se procurasse piacere ad almeno uno che lo legga comprendendolo.
Il libro tratta i problemi filosofici e mostra – credo – che la formulazione di questi problemi si fonda sul fraintendimento della logica del nostro linguaggio. Tutto il senso del libro si potrebbe riassumere nelle parole: Tutto ciò che può essere detto si può dire chiaramente; e su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere”.
(Ludwig Wittgenstein, prefazione al “Tractatus logico – philosophicus”, ed. Einaudi)
Dovrei tacere e rimandare gli interessati alla lettura del libro, ma siccome non ho ambizioni da critico o da esperto (che se anche le avessi dovrei trattare l’argomento Wittgenstein con somma circospezione) mi limito, di seguito, a riportare qualche impressione sulla lettura, senza addentrarmi in analisi dettagliate che non sono in grado di fare.
Il libro ha procurato piacere al mio cervello, dunque il fine di cui l’autore parla nella prefazione è stato conseguito, almeno parzialmente. Non posso dire, invece, di averlo compreso. Ho intuito, probabilmente, solo ciò che avevo già pensato anch’io, ma che non sono mai riuscito a esplicitare alla maniera di Wittgenstein (bella rivelazione), autore di formazione logico – matematica, che probabilmente non aveva una preparazione filosofica (in senso stretto, e questa parentesi potrebbe diventare enorme se mi mettessi a riflettere su cosa effettivamente è filosofia, ma lascio ad altri il compito) all’altezza di altri giganti del pensiero, ma che era dotato di una mente geniale tale da produrre questo libro “sui generis” che si è rivelato tra i più influenti nella storia del pensiero occidentale dell’ultimo secolo.
Con il “Tractatus logico – philosophicus“, una delle poche opere edite mentre era in vita, Wittgenstein affronta il tema del rapporto tra i fatti del mondo e il linguaggio, inteso come “raffigurazione logica del mondo” stesso. La sua tesi di fondo in quest’opera è che tutto ciò che pensiamo deve poter essere formulabile linguisticamente con un linguaggio logico. L’autore stesso, tra l’altro, prenderà nettamente le distanze dalle posizioni espresse nel “Tractatus“, ripensando molte delle tesi espresse nello stesso e lo farà con le “Ricerche filosofiche“, peraltro edite solo dopo la sua morte.
L’opera è strutturata in sette proposizioni, ciascuna ulteriormente specificata in sotto-proposizioni che si diramano come un albero. Si tratta di un testo a tratti molto ostico, e la difficoltà è di tipo diverso da quella che solitamente un profano della materia può trovare leggendo un testo filosofico, per esempio di Kant o di Hegel. Nel caso di Wittgenstein, a rendere ardua la lettura è da un lato la secchezza di talune proposizioni, l’apparente ed ingannevole semplicità delle definizioni, dietro le quali si nascondono riflessioni ben più profonde, dall’altro il continuo riferimento a nozioni di carattere logico e matematico (ivi compresi i simboli) che rendono ardua la comprensione a chi (come me) ha “colpevolmente” abbandonato quel sentiero. Per capire certi passaggi avrei dovuto quanto meno leggermi Russell e Frege, peraltro unici autori esplicitamente citati da Wittgenstein.
La logica, dunque, come raffigurazione della realtà. Come detto sopra, il filosofo Wittgenstein contesterà, o meglio supererà, ingloberà il logico un paio di decenni dopo, allorché si renderà conto che la logica non può spiegare tutto, e che c’è un sentire diverso.
Per i motivi di cui sopra, non sono in grado di definire Wittgenstein e la sua opera, per esempio prendendo posizione circa la sua influenza sui neo-positivisti del circolo di Vienna o piuttosto sui suoi aspetti più mistici, e onestamente non credo sia giusto catalogare un autore in un modo piuttosto che in un altro.
Posso dire, a chiusura di queste mie impressioni senza pretese, che nonostante le difficoltà di comprensione, pure innegabili, il “Tractatus logico – philosophicus” è un’opera che senza dubbio mi accompagnerà nei miei futuri percorsi letterari – filosofici e di vita. Non fosse altro che per quella frase che lo chiude, e che faccio mia adesso, tacendo su ciò di cui non debbo parlare.
RICERCHE FILOSOFICHE
“1. …Pensa ora a questo impiego del linguaggio: mando uno a far la spesa. Gli do un biglietto su cui stanno i segni: “cinque mele rosse”. Quello porta il biglietto al fruttivendolo; questi apre il cassetto su cui c’è il segno “mele”; quindi cerca in una tabella la parola “rosso” e trova, in corrispondenza ad essa, un campione di colore; poi recita la successione dei numeri cardinali – supponiamo che la sappia a memoria – fino alla parola “cinque” e ad ogni numero tira fuori dal cassetto una mela che ha il colore del campione. —- Così, o pressappoco così, si opera con le parole. —- “Ma come fa a sapere dove e come deve cercare la parola ‘rosso’, e che cosa deve fare con la parola ‘cinque’?” —- Bene, suppongo che agisca nel modo che ho descritto. A un certo punto le spiegazioni hanno termine. – Ma che cos’è il significato della parola “cinque?” – Qui non si faceva parola di un tale significato; ma solo del modo in cui si usa la parola “cinque”.
(Ludwig Wittgenstein, “Ricerche filosofiche”, Piccola Biblioteca Einaudi)
Wittgenstein aveva intenzione di pubblicare le “Ricerche filosofiche” insieme al “Tractatus logico-philosopicus”, in uno stesso volume, per meglio evidenziare l’evoluzione del suo pensiero rispetto a quanto aveva scritto oltre venti anni prima nel “Tractatus” stesso. Non gli fu possibile a causa della malattia che lo condusse alla morte e le “Ricerche filosofiche” restarono incomplete.
Come egli dice nella prefazione, i pensieri raccolti nell’opera sono una serie di fotografie filosofiche. Non riuscì a dare una direzione alle sue ricerche, e del resto questo ben si accorda con la non – sistematicità del pensiero filosofico dell’autore, che pure aveva tentato con il “Tractatus” di porre ordine con la logica, salvo poi rivedere tale sua certezza.
Su Wittgenstein la letteratura è ampia, le interpretazioni variegate, le forzature per ascriverlo ai neo – positivisti piuttosto che ai metafisici sono note a coloro che sono più dentro l’argomento. Io non ho la pretesa di classificarlo in qualsivoglia categoria, mi limito a riportare le mie impressioni, e lo faccio sulla scorta della lettura – studio, sia del “Tractatus” sia delle “Ricerche filosofiche”.
La sensazione immediata è che tra un’opera e l’altra fondamentale sia l’abbandono della disperata ricerca dell’unità, che aveva tentato con la tesi del linguaggio come rappresentazione logica del mondo, per giungere alla consapevolezza, sia pure non assoluta e sempre sottoposta a vaglio critico, che unità non v’è, o meglio, che l’unità è data solo nella molteplicità, nei particolari, e che la logica è insufficiente ad assolvere quel compito che Wittgenstein le aveva assegnato.
La corrispondenza nome – oggetto, a fondamento delle proposizioni logiche così fondanti nel “Tractatus”, è messa subito in discussione nei primi passaggi del libro, con la critica alla concezione agostiniana del linguaggio. Attraverso i cosiddetti “giochi linguistici”, disseminati lungo tutto il libro, Wittgenstein va oltre la sua stessa costruzione e riconosce il principale errore del suo precedente tentativo filosofico: la ricerca della proposizione logica generale (“le cose stanno così e così”) che possa spiegare e cristallizzare la realtà, dunque l’assoluto, in ultima istanza la brama di un’essenza dietro le parole e gli oggetti.
Le “Ricerche filosofiche” sono un lungo dialogo tra il filosofo e il logico che era stato nel “Tractatus”. Al di là della classificazione di scuola tra un primo e un secondo Wittgenstein, è percepibile con nettezza come nel “Tractatus” egli ritenesse necessaria e sufficiente la logica del linguaggio a spiegare il mondo dei fatti, mentre ora si rende conto che c’è un sentire irriducibile alla mera logica del linguaggio.
Nel Tractatus “sappiamo perché vediamo”, nelle Ricerche “vediamo perché sappiamo”, cioè è il sapere, il sentire che sta alla base della logica, e non viceversa. Il sentire è cogliere connessioni, somiglianze, affinità, parentele tra i diversi giochi linguistici, tra le diverse situazioni della realtà.
Tutto il libro è una critica alla concezione denotativa del linguaggio, quella per la quale, tanto per intenderci, a ogni “nome” corrisponde un “nominato”. Occorre già possedere un linguaggio perché possa funzionare la concezione denotativa (l’esempio delle cinque mele rosse, al paragrafo due, è subito indicativo al riguardo: possiamo sostenere che la parola “mele” denoti l’oggetto-frutta, ma non possiamo dire che “cinque” corrisponda a “quel gruppo” di oggetti, né tanto meno “rosse”, perché “cinque” e “rosse” sono applicabili anche ad altre situazioni, ad altri “giochi linguistici”).
Di conseguenza, l’essenza del mondo e inafferrabile e sbagliano i filosofi metafisici, che pretendono di stabilire un rapporto tra la parola e l’oggetto corrispondente. La concezione denotativa non è sbagliata in assoluto, ma cessa di essere il modello interpretativo privilegiato.
All’unità del linguaggio logico del Tractatus, si contrappone, dunque, la molteplicità dei “giochi linguistici”. Resta il problema del “che cos’è il gioco”. Il platonismo è rovesciato, non c’è più un mondo di “idee” più vere dei fenomeni, dei quali noi “vediamo improvvisamente, di colpo”, le somiglianze, che appaiono e scompaiono, e le vediamo con la nostra capacità di sentire, non con l’intelletto, il quale invece tende all’unità logica, alla semplificazione, al solipsismo che caratterizzava anche il Tractatus.
La comprensione non è mai definitiva, logica, è sempre un ri-vedere. L’unità si dà nella molteplicità. Il passaggio da una rappresentazione riproduttiva della realtà a una produttiva. La frase “le cose stanno così e così”, che nel Tractatus era il prototipo generale delle proposizioni, qui perde tale ruolo. Ora non possiamo dire “che cos’è una proposizione”, così come non possiamo dire “che cos’è un gioco”, ma solo fare esempi, indicare connessioni, somiglianze.
Questo è quanto ho inteso di questo magnifico libro. Naturalmente, con la specificazione che sono solo un lettore appassionato, non uno studioso della materia, che potrei avere detto delle sciocchezze, e che in ogni caso dimostrerei di aver capito poco o nulla se non aggiungessi, a chiusura, che questo è uno di quei libri che vanno compresi, ricompresi, letti e riletti a distanza di tempo, che sedimentano dentro e acquisiscono valore, per chi lo legge, forse soprattutto a distanza di anni.
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