Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

“Maschere” (l’ennesimo articolo sconclusionato e mascherato)

“Tutto ciò che è profondo ama la maschera; le cose più profonde hanno per l’immagine e l’allegoria perfino dell’odio…un tale uomo riservato, che istintivamente si serve delle parole per tacere e per celarle ed è inesauribile nello sfuggire alla comunicazione, vuole ed esige che al suo posto erri nei cuori e nelle menti dei suoi amici una maschera; e anche ammesso che egli non voglia tutto questo, un bel giorno gli si spalancheranno gli occhi sul fatto che a onta di ciò v’è laggiù una sua maschera – e che è bene che le cose stiano a questo modo. ogni spirito profondo ha bisogno di una maschera; e più ancora, intorno  a ogni spirito profondo cresce continuamente una maschera, grazie alla costantemente falsa, cioè superficiale interpretazione di ogni parola, di ogni passo, di ogni segno di vita che egli dà”.

(F. Nietzsche, “Al di là del bene e del male”, Lo spirito libero, af. 40, ed. Adelphi)

Indosso la maschera da blogger e inizio a scrivere quest’articolo, stimolato da un paragone che una mia conoscenza “virtuale” mi ha suggerito, e che nobiliterà questo scritto privo di ambizioni. Il tema mi affascina da sempre, ma non è semplice scriverne, perché è stato già affrontato da grandi pensatori e quindi non c’è molto da aggiungere. Si tratta della maschera sociale che indossiamo quotidianamente nelle più diverse situazioni e delle collegate nozioni di persona e personaggio. La maschera, oltre che una metafora efficace, può essere anche un oggetto materiale, come quello che s’indossa in occasioni di festività come il carnevale. Sull’argomento, scrissi qualche mese un malinconico brano (“Arlecchino”) per evidenziare la mia scarsissima e dimenticabile esperienza da mascherato. In un altro (“Le mie qualifiche”), invece, ricordavo le mie qualifiche sociali, cioè alcune definizioni che mi sono state attribuite nel corso della mia esistenza, quasi tutte basate su impressioni altrui che avevano scarso o nullo fondamento, o meglio, che non avevano fondamento in mie reali occupazioni materiali, ma che forse originavano da miei atteggiamenti, quindi da mie maschere, che potevano indurre l’interlocutore a ingabbiarmi in una certa definizione. Il rapporto tra ciò che noi vogliamo essere per gli altri e ciò che gli altri pensano di noi è molto complesso, ciascuno può intuirlo da sé a prescindere dalle mie astruse vicende, ma non meno problematico è quello tra ciò che noi sentiamo di essere e ciò che vorremmo pensare di noi stessi.

Su questo blog, digitando nel motore di ricerca interno la parola “maschera”, è possibile ritrovare una serie di articoli nei quali riporto frasi altrui e considerazioni mie su questi argomenti, sui quali quindi non mi ripeto in questa sede, se non per aggiungere che spesso mi capita, anche nei sogni, non solo d’interrogarmi sulla mia identità reale (per esempio nel sogno riportato qui: “La coscienza dimeno”), ma anche di sognare un uomo che cammina, osservato dai topi, nascosti sotto le feritoie dei tombini, laddove hanno eretto la loro Babele, il quale uomo, ritrovato un cubo a terra, lo raccoglie e poi mescola i colori per ottenere una nuova maschera, così che il riflesso delle vetrine lo renda irriconoscibile a sé stesso.

A questo punto, ritengo opportuno fermarmi prima che qualcuno si decida (giustamente) a chiamare uno psichiatra, e dopo aver ricordato che anche Diderot ed Erasmo da Rotterdam ebbero da dire la loro su questi argomenti, vengo allo spunto offertomi dalla mia amica, che ieri sera mi ha proposto un’analogia tra Luigi Pirandello, che questi argomenti li ha sviscerati in maniera magistrale, e il cineasta Ingmar Bergman, con particolare riferimento a questa scena, tratta dal film “Persona”, della quale vi riporto anche il testo:

“Credi che non ti capisca. Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere, essere in ogni istante cosciente di te, vigile, e nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa. Provoca quasi un senso di vertigine il timore di vedersi scoperta, vero? Di vedersi messa a nudo, smascherata, riportata ai suoi giusti limiti. Poiché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia, qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no, sarebbe poco dignitoso, meglio rifugiarsi nell’immobilità, nel mutismo, si evita di dover mentire. Oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c’è bisogno di recitare, di mostrare un volto finto o di fare gesti voluti, non ti pare? Questo è ciò che si crede, ma non basta celarsi perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni sono vere oppure false, sincere o bugiarde, solo a teatro il problema si rivela importate, e forse neanche lì. Io ti capisco, Elizabeth, capisco il tuo silenzio, questa tua immobilità e perché tu abbia elevato a sistema di vita la tua assurda apatia. Capisco, e quasi ti ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo, finché essa non perda ogni interesse e abbandonarla, così, come sei abituata a fare, passando da un ruolo all’altro”.

Chiudo con le parole di Pirandello, tratte da “Uno, nessuno, centomila”:

“Era proprio la mia quell’immagine intravista in un lampo? Sono proprio così, io, di fuori, quando – vivendo – non mi penso? Dunque per gli altri sono quell’estraneo sorpreso nello specchio: quello, e non già quale mi conosco: quell’uno lì che io stesso in prima, scorgendolo, non ho riconosciuto. Sono quell’estraneo che non posso veder vivere se non così, in un attimo impensato. Un estraneo che possono vedere e conoscere solamente gli altri, e io no.

E mi fissai d’allora in poi questo proposito disperato: d’andare inseguendo quell’estraneo ch’era in me e che mi sfuggiva; che non potevo fermare davanti a uno specchio perché subito diventava me quale io mi conoscevo; quell’uno che viveva per gli altri e che io non potevo conoscere; che gli altri vedevano vivere e io no. Lo volevo vedere e conoscere anch’io così come gli altri lo vedevano e conoscevano.

Ripeto, credevo ancora che fosse uno solo questo estraneo: uno solo per tutti, così come uno solo credevo d’esser io per me. Ma presto l’atroce mio dramma si complicò: con la scoperta dei centomila Moscarda ch’io ero non solo per gli altri ma anche per me, tutti con questo solo nome di Moscarda, brutto fino alla crudeltà, tutti dentro questo mio povero corpo ch’era uno anch’esso, uno e nessuno ahimé, se me lo mettevo davanti allo specchio e me lo guardavo fisso e immobile negli occhi, abolendo in esso ogni sentimento e ogni volontà.

Quando il mio dramma si complicò, cominciarono le mie incredibili pazzie.

(Luigi Pirandello, “Uno, nessuno e centomila”)

Cosa dovrebbe ricavarsi da quest’articolo? Boh. Intanto tolgo la maschera da blogger e indosso quella da lettore.

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4 pensieri su ““Maschere” (l’ennesimo articolo sconclusionato e mascherato)

  1. Pingback: “Novella degli scacchi” (Stefan Zweig) | Tra sottosuolo e sole

  2. Mr. Storage in ha detto:

    A chi pensava Nietzsche quando ha scritto quel brano?

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