Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

“Castelli in aria (abbattuti)” – oppure “Ei fu cortometraggio”

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Nella schiera dei miei progetti rivelatisi poi vuote velleità, c’è anche una sorta di sceneggiatura per un cortometraggio, che teoricamente io e alcuni amici avremmo dovuto realizzare qualche anno fa, ma che in pratica agonizza in un cassetto della mia stanza. L’umanità, è bene sottolinearlo, non ha sentito né sentirà la mancanza di quest’opera potenziale, che avrebbe potuto infestare i social network o addirittura qualche “Festival del Corto”. Oggi, spinto dal tedio provinciale, mi sono riletto l’elaborato, così da rilevarne, a distanza di tempo, difetti evidenti e pretenziosità. Il titolo che avevo scelto come definitivo, “Castelli in aria”, nel quale avrei voluto condensare l’aleatorietà dei pensieri del protagonista, rappresenta, probabilmente, la parte più riuscita dell’opera. Inoltre, sebbene il titolo stesso non spicchi per brio, si dovrà ammettere che resta preferibile all’originale “La finestra del castello”, da me abbandonato per evidente squallore dello stesso.

Influenzato da non so quali letture dell’epoca, presumo qualcosa che evidenziasse la relatività della conoscenza, mi convinsi di avere in mente un’idea brillante nel corso di una passeggiata lungo la via principale del mio paese, dalla quale è possibile scorgere, in lontananza, il castello medievale che domina dall’alto le strade sulle quali ero e sono solito passeggiare. La prima scena, intitolata “Il viale dell’eterna illusione”, si apre con due amici che camminano mogi e silenti, accompagnati da “Un giorno dopo l’altro” di Luigi Tenco come colonna sonora, scelta non certo rappresentante uno slancio nel mondo dell’ottimismo. L’indicazione per l’eventuale regista del corto è di piazzare la telecamera alle spalle dei due viandanti, in modo da “dare il senso della prospettiva” e inquadrare anche il castello. Alla fine della canzone ha inizio il dialogo tra i due, che non vi riporto perché non sono così sadico, ma sul quale è opportuna qualche breve riflessione.

Innanzitutto, mi appare ancora più evidente come il tentativo di fondare una dialettica tra un personaggio più sognatore e l’altro più razionale, non solo esprimeva una visione abbastanza manichea che oggi rinnego, ma lasci trasparire, per quanto mitigata da frasi volte a “smontare” le tesi del sognatore, una simpatia evidente dell’autore (cioè il sottoscritto) per lo stesso. Mancano solo i cori da stadio messi tra parentesi, ma è chiaro quale dei due protagonisti sia il figlioccio prediletto.

I due stanno discutendo di un futuro concerto che si terrà al castello, quando X (il sognatore, per semplificare) afferma che non si recherà a vederlo perché ha un rapporto conflittuale con quel castello, frase che nella realtà gli avrebbe fatto guadagnare due schiaffi ben assestati, che invece Y gli risparmia.

X: – Hai letto “Il castello” di Kafka?

Y: – Sì, ma che c’entra adesso, non recitare la parte dell’intellettuale che cerca significati laddove non ce ne sono!

Non poteva mancare Kafka, altrimenti che cortometraggio sarebbe stato senza una citazione colta? L’amico Y, facendo sfoggio della sua razionalità almeno apparente, sulla quale non giurerei, cerca di riportare X alla realtà, ma X, ormai partito per la tangente, incalza e rivela che “quel castello, lì in alto, non è altro che la fisica rappresentazione dei fallimenti che mi porto e ci portiamo addosso”, così come quella via è “un raro esempio di labirinto rettilineo”, simbolo asfaltato dei fallimenti politici, lavorativi, ma soprattutto, e come poteva essere altrimenti, sentimentali, cimitero dei sogni d’amore, “tutti infranti contro un muro immaginario che ci delimita in questo rettifilo!”. Ecco svelato il vero motivo del cortometraggio: la misera ambizione di trasfigurare giovanili (e non solo) disillusioni.

Dopo questo dibattito dai toni surreali e funerei, non poteva mancare la visione che corrobora lo svilimento di X, sotto le gaudenti forme di una coppia d’innamorati che passeggiano, mano nella mano, sull’altro lato del marciapiede. A questo punto parte la filippica del disilluso sognatore, che ammorba l’amico con la storia delle ragazze che lui ha amato, o riteneva di amare, ma che “non hanno potuto e voluto contraccambiare il mio”. Mi sembra ingeneroso, adesso, da parte mia, emulare acrobati politici e saltare nei banchi dell’opposizione a X, sguainare la spada e fare a pezzi le sue parole, infierendo sul suo corpo assieme al trionfante Y, ed eviterò di farlo. Il buon Y, peraltro anche lui non del tutto alieno da fisime sentimentali, cercherà, a questo punto, di riportare X alla realtà dei fatti.

Y: – Senti, tu rischi di perderti nei tuoi pensieri. Quella ragazza come avrebbe potuto anche solo guardarti? Non le hai mai detto niente, scommetto, non le hai espresso i tuoi sentimenti. Secondo me non sono i sogni che sono fuggiti nel castello, sei tu che sogni troppo e non ti godi la realtà, che sarà quella che è ma è l’unica che abbiamo!

Dopo queste parole, a dirla tutta, ritorna potente la voglia di gettarsi nel regno di Utopia e abbattere a colpi d’accetta il realista Y, ma evito questa mattanza e proseguo nell’analisi del fallimento complessivo del corto, non prima di aver segnalato come circa questa prima scena furono effettuati, da parte mia e del regista potenziale dell’opera, sopralluoghi anche abbastanza accurati, facilitati dall’allora comune stato di nullafacenti, peraltro spesso ripresentatosi da allora a oggi (ma questa è un’altra storia).

Se la prima scena “sfuma in un’atmosfera di malinconia totale”, come non poteva essere altrimenti dopo il dialogo tra i due vagabondi, la seconda si apre con il sognatore X che si trova all’interno del castello e che “guarda assorto un punto nel vuoto dinanzi a sé”, magari con una mano poggiata sul mento in atteggiamento contemplativo. Per un adeguato accompagnamento alla solitudine del mesto sognatore, si era ipotizzata “No surprises” dei Radiohead, sempre all’insegna dell’imperante allegria. In questa scena c’è un nuovo dialogo tra i due amici, stimolato da Y, che scorgendo l’altro in preda ai suoi deliri poetici e sentimentali, cerca di svegliarlo, auspicando, al limite, una caduta nell’alcolismo più estremo, a suo dire meno dannoso del mirare la luna vedendola piena anche quando tale non è.

Nel corso della discussione X scoprirà, manco avesse trovato il bosone di Higgs, che “a vederlo da vicino il castello ha perso gran parte del suo fascino, non è più così attraente”, ma soprattutto, è bene sottolinearlo affinché questi sui pensieri non vadano dispersi con grande nocumento per la specie umana, che “un eccesso di fantasia è deleterio, non conduce a nulla. La fantasia va domata, bisogna lavorare sulla propria immaginazione, altrimenti il tutto si riduce alla creazione d’immagini nel proprio cervello che non hanno fondamenta reali e che, conducono, alla lunga, a tremende delusioni”, che “quando si giunge a scoprire una cosa, a vederla per quello che davvero è, si rischia di non apprezzarla per il semplice motivo che in precedenza ci si era creati un’aspettativa troppo elevata. La fantasia sfrenata si rivela essere, alla fine, una forma di presunzione”, ma soprattutto, non plus ultra delle scoperte, che da quel punto di osservazione le stesse strade che percorre tutti i giorni, e che di solito gli appaiono misere, dall’alto sono stupende, così com’è, al contrario, per il castello. A questo punto, l’amico Y, che l’autore non vuol fare apparire come un cuore arido e una mente limitata, affermerà anch’egli convinto che “le cose si apprezzano meglio solo da lontano, quando non ci si trova in mezzo”, ma subito cercherà di far notare all’incantato X che non si può vivere su un castello.

Il lampo di genio di X, tuttavia, scoverà non una, ma tre soluzioni al quesito esistenziale posto da Y. Alla richiesta d’illuminazione dell’amico, risponderà che “la prima è non riflettere, agire”, espressione oscura che a tutt’oggi lo stesso autore del cortometraggio sta cercando di sviscerare nei suoi più reconditi significati; la seconda è “andarsene da questo paese e tornare di tanto in tanto, così da avere tante storie da raccontare e da farsi raccontare”, probabilmente la più saggia e per questo non seguita né dall’autore né dai personaggi; la terza, e qui si prega il lettore di reggersi forte alla sedia, è “la teoria dei “lampi di beatitudine”, mutuata in maniera pedissequa dal finale delle “Notti bianche” di Dostoevskij, citazione che l’autore (non devo scordarmi che sto parlando di me stesso, quindi cercherò di non insultarmi più del dovuto) non poteva evitare di inserire da qualche parte, a costo di mandare a monte il tutto, come del resto poi è accaduto.

Nello specificare la sua teoria, X afferma che da quel momento cercherà “di cogliere in ogni singola persona il meglio che ha da offrire”, probabilmente riferendosi in maniera inconscia al suo probabile futuro nel mondo dell’accattonaggio, ma spacciandolo retoricamente per il tentativo di “accontentarsi dei “lampi di beatitudine”, quei momenti della vita, quelli che durano anche pochi secondi, in cui ci sentiamo immersi negli altri, in un amico che ride, in una ragazza sconosciuta che ci sorride”. L’amico Y, al quale sempre più va la mia odierna solidarietà, ribadirà la sua convinzione circa la pazzia non più latente di X, ma chiuderà la conversazione in tono accondiscendente.

È nella scena finale, tuttavia, che l’opera riesce a squalificarsi in maniera definitiva. L’inquadratura iniziale è su un gruppo di ragazzi che siedono su una panchina del giardino comunale, luogo che, al pari delle citazioni di cui sopra, non poteva mancare in qualsiasi velleità di scrittura nella quale m’imbarcavo a quel tempo (e non manca neanche nei più recenti tentativi; ciò valga da aggravanti nei miei confronti).

X si sta avvicinando a un gruppo di amici, quando ecco che appare Z, la donna, elemento che finora era rimasto inespresso ma che incombeva sul cortometraggio dalla prima nota musicale. I due, manco a dirlo, non si vedevano da tempo. Dopo un paio di battute, scopriamo che, mentre X ha trascorso gli anni a fantasticare su donne improbabili, tra le quali ovviamente la stessa Z, quest’ultima si è data da fare in maniera più pratica e ha un “impegno urgente” con il ragazzo, che la sta aspettando. Sull’impellenza dell’impegno ciascuno potrà farsi la propria idea, mentre sulla richiesta che X fa alla ragazza, posso azzardare che si tratta di una scena patetica, peraltro, e qui sottolinearlo mi causa un dolore lancinante all’alluce del piede destro, fondata su avvenimenti non del tutto alieni dalla realtà (ma su questo, anche per via dell’alluce, stendo il velo pietoso e melmoso).

X: – Scusa…dimenticavo di chiederti una cosa…avrei dovuto farlo qualche anno fa ma…non ci riuscii mai…e anche se ormai non ha senso…

Z: – Cosa?

X: – Un semplice bacio sulla guancia.

Z: – Per tutto questo! Che strana richiesta!

X: – Già, una richiesta…da pazzo…o da sognatore…

Z: – Ma no, non volevo dir questo, è che l’hai chiesto come se fosse chissà che…

Z e X si scambiano il bacio e l’opera, che magari poteva chiudersi con una richiesta di un reciproco rapporto sessuale orale, termina in un clima abbastanza patetico, con Z che si allontana e va ad espletare le sue pratiche urgenti, mentre X, canzonato dagli amici e specie da Y, il quale ha capito qual è la “poesia” che X sta cercando nella luna. Non è tutto, perché non poteva mancare un nuovo esplicito, anzi letterale, riferimento a Dostoevskij.

Y: – Ti perdono solo perché lei ti ha dato un bacio!

X: – Un bacio? Non era solo un bacio, era un intero minuto di beatitudine…è forse poco, sia pure in un’intera vita umana?

Il cortometraggio finisce, la vergogna per averlo ideato persiste, ma la consapevolezza di non averlo portato a compimento mitiga il sentimento di auto-fustigazione che mi ha pervaso nel rileggere il tutto. Ripeto, a completamento, che io e l’amico che avrebbe dovuto essere il regista del corto ci recammo anche nel luogo della prima scena per discutere, con un coinvolgimento che confinava con l’entusiasmo, su come realizzare il corto, con tanto di approfondimenti circa la scelta degli attori, cioè di chi, fra gli altri nostri amici, avrebbe potuto meglio vincere la vergogna della telecamera e quella derivante dal pronunciare le frasi da me scritte. Ricordo che su almeno uno dei due protagonisti le idee erano abbastanza chiare, sull’altro la rosa era ristretta ad alcuni papabili. Più vaga era, invece, la scelta dell’esponente femminile, che avrebbe dovuto impersonare Z. L’idea di un casting all’uopo è l’unica cosa che potrebbe dare un senso a tutto ciò, nella speranza, neanche tanto velata, che poi, dietro le quinte, si possa andare oltre gli impegni urgenti e soprattutto oltre un misero bacio sulla guancia.

Si chiude qui questa triste storia provinciale. Il castello, la sua finestra e la strada principale del paese sono ancora là. Il cortometraggio, invece, giace, come tutto il resto.

P.s. : nella foto il castello di Itri, ispiratore inconsapevole del moribondo cortometraggio.

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7 pensieri su ““Castelli in aria (abbattuti)” – oppure “Ei fu cortometraggio”

  1. Molto autoironico nel criticare la tua stessa opera. Non infierire troppo su te stesso, non è così tremenda come dici. 🙂

    • Grazie, ma fa talmente schifo che riesco nemmeno a condividerla sulla mia pagina Facebook, forse WordPress è andato in tilt per quanto era brutta…ahah…:)

      • 😆
        Se ti può consolare ho qualche schif… ehm opera dimenticata nei cassetti. Che tengo ben chiusi a doppia mandata! 😛

  2. molti capolavori del cinema sono delle vere schifezze o banalità come soggetto, il cinema però è questo, far diventare una qualsiasi schifezza un’opera interssante, un film è cosa totalmente diversa e staccata da una sceneggiatura, quindi io penso che dipende da come tu lo “vedi” o l’immagini in chiave cinematografica, forse è la tua visione cinematografica che è cambiata e non accetta più quella che avevi prima, prova a immaginartelo in un altro modo, io non credo che sia così derelitta questa storia, certo non è così geniale, ma potrebbe avere quello che basta per dare spazio alla genialità che ci devi mettere da adesso in poi, perchè le sceneggiature sono fatte solo per il gusto di essere distrutte

    • Innanzitutto, grazie per il commento e gli spunti.
      Il problema, come hai scritto tu, è che adesso lo “vedo” in maniera molto differente dall’epoca. Siccome non ho mai avuto reali ambizioni cinematografiche, credo che la questione maggiore, a prescindere dall’eventuale realizzazione e dagli accorgimenti – migliorie che si potrebbero apportare, sia soprattutto relativo a “come” vedo “quel” me stesso rappresentato.
      Può darsi anche che quest’articolo, questa presa di distanza da quel che avevo scritto, mi possa servire per riprenderlo, rielaborarlo, oppure no, chissà, forse è davvero destinato all’obitorio 🙂

      • bè averlo ripreso qui tradisce troppo evidentemente la voglia di rivederlo in qualche modo, anche rivedendo quel te che non ti piace più cambiando battutte scene senso dei personaggi, insomma saccheggiarlo, che è l’unica cosa che si può fare a distanza di tempo, a me ad esempio mentre lo leggevo veniva in mente un film su due che rivedono e riflettono su un film che stavano preparando anni fa e che poi non hanno fatto…
        per vederlo in modo diverso intendo anche come montaggio ritmo modi diversi di recitazione e riprese, esempio (banalizzando ed esagerando) se gli attori sono vestiti da donna (ripeto sto esagerando) la stessa scena che sembrava banale con gli stessi dialoghi diventa un’altra cosa..
        per ultimo, ma sai che era meglio il primo titolo, più semplice e senza pretese, nel secondo c’è la solia idea del titolo ad effetto col doppio senso che è cosa un po’ vecchia

      • Sì, la voglia di rivederlo si è manifestata nel momento stesso in cui ho deciso di passare un po’ di tempo a rileggerlo e analizzarlo. L’idea originaria che avevo avuto era quella di lasciarlo sotto forma di dialoghi, ma cercando di renderlo (tragi)comico, poi mi sono accorto che era un’operazione troppo complessa o che comunque richiedeva più tempo, quindi mi sono accontentato di trascrivere le impressioni che mi venivano in mente leggendolo.
        Finirà che scriverò qualcosa su un tizio che rilegge un articolo tratto dal suo blog, nel quale narra di un antico progetto, etc, etc…insomma, meta-scrittura al cubo!

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