Tra sottosuolo e sole

(Non) si diventa ciò che (non) si è.

Lo straniero

“Lo straniero” fu pubblicato dall’editore Gallimard nel 1942, qualche mese prima che fosse edito “Il mito di Sisifo”, altra opera fondamentale della produzione letteraria di Albert Camus. Il concetto di “assurdo”, che sarà sviscerato sul piano logico – razionale ne “Il mito di Sisifo”, è incarnato dal personaggio di Meursault, narratore in prima persona de “Lo straniero”. Certo, l’ottica è parzialmente diversa: “Il mito di Sisifo” prende le mosse dall’analisi del “suicidio”, mentre “Lo straniero” è la storia di un omicidio, ma è innegabile che il saggio e il romanzo siano accomunati da un comune ‘sentimento dell’assurdo’. La scissione insanabile tra l’uomo, con le sue aspirazioni, la sua consapevolezza dei limiti da una parte, e la natura dall’altra, trova espressione romanzesca in questo testo che sin dal terribile incipit rivela ciò che ci aspetterà nelle pagine a seguire.

“Oggi la mamma è morta, o forse ieri, non so”, queste le parole con cui il protagonista si presenta a noi. Quel “non so”, secco, stringato, ipotetico, suona, se possibile, ancora più terribile della prima parte della frase, ci mette di fronte subito all’assurdità di un uomo che non ha certezza neanche di un avvenimento simile. Ritornerà più volte quel “non so”, per esempio quando gli chiedono se vuole vedere la madre morta. Non lo sa, Meursault, ma il suo non sapere non è limitato a quella circostanza, non è solo frutto di una comprensibile tensione emotiva, no, è qualcosa che affonda le radici nel suo totale distacco dal mondo, nell’indifferenza verso tutto e tutti, nella gratuità delle sue azioni, che possono avere uno sviluppo piuttosto che un altro, equivalendosi. Meursault afferma di avere una scusa plausibile per assentarsi dal lavoro, riecheggiando il protagonista della “Metamorfosi” kafkiana, che risvegliatosi insetto si preoccupa solo di non potersi recare al lavoro, non di essere divenuto, appunto, un insetto. Più che a “La metamorfosi”, però, il pensiero va al “Processo”, sempre di Kafka, e a “Delitto e castigo” di Dostoevskij, con le affinità e le differenze del caso. Per esempio, Raskol’nikov commette un delitto perché si sente Napoleone e arroga a sé il diritto di decidere che un’usuraia non merita di vivere, salvo poi sentire il travaglio della “colpa”, prima ancora che la giustizia degli uomini lo incastri. Joseph K., al contrario, è arrestato un mattino senza sapere qual è la “colpa” che ha commesso, perché nel caso di Kafka la colpa preesiste al delitto, è connaturata all’esistenza. Meursault, invece, non uccide per delirio di onnipotenza e dopo il fatto non sente alcuna colpa. Egli è ‘oltre’, nella sua abiezione.

L’indifferenza, l’alienazione, il distacco da sé e dal mondo come cifra dell’assurdo, dunque. Meursault si muove come una sorta di marionetta manovrata dal caso, parla poco con gli altri, la sua narrazione in prima persona è secca, le sue parole registrano i fatti nudi e crudi, senza cedere a romanticismi di sorta, e anche le considerazioni di carattere “filosofico” sono più accennate che esplicitate. Persino quando ci parla del corpo o della natura nel suo splendore, avvertiamo sempre una sensazione di distacco. I suoi atti, come detto, sono gratuiti, se gli è chiesta un’opinione risponde spesso con un “non so”, se deve scegliere se fare o non fare qualcosa sembra affidarsi a un lancio di dadi. Quando il vicino di caso, il losco Raimondo Synthes, gli chiede di scrivere una lettera per adescare una donna e umiliarla, Meursault accetta, ma non perché sia convinto, quanto perché per lui tutto è diventato indifferente, e fare o non fare una determinata cosa è lo stesso. L’assurdo, appunto. Così come ci appare illogico il suo incontro amoroso con Maria, la sera successiva al funerale della madre, e assurda la risposta che dà alla proposta di matrimonio della ragazza, un laconico “non so”.

Meursault è un uomo che non aspetta più nulla dalla vita, non vuole dare più opinioni. Si è ben lontani dal Dott. Rieux de “La peste”, altro straordinario romanzo di Albert Camus. “Lo straniero” sotto questo profilo pone un problema che poi “La peste” cercherà di risolvere. La solidarietà umana di Rieux sarà l’antidoto alla disperata solitudine dello “straniero”. Meursault non è Camus, non è “tutto” Camus, questo è bene dirlo a chiare lettere, per quanto molti riferimenti di carattere geografico, biografico siano talmente evidenti da apparire ingenui. Camus è “oltre” Meursault, anche se Meursault è una sua creatura e se al lettore può sembrare che egli parteggi per lui. Chi conosce il complesso delle opere di Camus, chi ha letto i suoi “Taccuini”, sa che Camus non è indifferente al mondo, non è alienato, non brama l’indifferenza. Camus, pur con tutti i suoi travagli, si muove ‘verso’ il sole conscio dei propri limiti, delle proprie abiezioni ma anche della propria e dell’altrui “bellezza”; Meursault invece è accecato ‘dal sole’.

Il sole, ecco, elemento cardine, espressione primaria della natura, meravigliosa e terribile, accecante nel proprio splendore. Il sole da subito ci appare come decisivo nel processo di annichilimento che Meursault percorre. E’ ricorrente l’immagine della potente luce che offusca la vista del protagonista e obnubila la sua mente, ostacolandolo anche nelle attività più banali del protagonista. Ci pare quasi di essere assieme a lui, a quaranta gradi, per le strade di Algeri, con la fronte madida di sudore. Altri elementi ricorrono spesso, citati più volte proprio con lo scopo di farci “sentire” la ritualità, l’indifferenza di giornate che scorrono senza motivo. Basti pensare all’accensione di una sigaretta, magari proprio nella camera ardente, o a Salamano, il vecchietto vicino di casa, che da otto anni percorre con il proprio cane sempre lo stesso giro della città.

Per un uomo del genere, che pure non ci appare mai come un mostro sanguinario, arriva un giorno in cui il caso lo pone di fronte al gesto estremo. Una spiaggia, circostanze particolari che l’hanno portato a trovarsi nel bel mezzo di una lite, una pistola che finisce nelle sue mani, una lama in mano a un altro uomo, il sole in faccia che non gli permette più di vedere nulla, l’oblio dei sensi e della mente, ed ecco che sparare o non sparare diventa uguale. Solo che Meursault spara, anzi spara quattro colpi, e su questo cala il sipario sulla prima parte del romanzo.

Nella seconda parte Camus amplia lo spettro del suo orizzonte, e lo fa, non a caso, nel momento in cui Meursault diventa uno “straniero” in gabbia e non più libero di stare in mezzo agli altri. L’assurdo, adesso, non è più solo la condizione di un uomo come Meursault, al contrario scopriremo, nell’accompagnarlo lungo la sua vicenda giudiziaria, che anche coloro che teoricamente dovrebbero rappresentare la Legge, la Ragione, la Razionalità, in verità sono quanto se non più assurdi di Meursault. L’avvocato d’ufficio e i giudici che interrogano l’imputato si dimostrano sciocchi, e non si accontentano della franca confessione di Meursault, che non nega di essere l’omicida, che dichiara apertamente di avere ucciso per caso, senza motivazioni che vadano oltre l’essersi trovato un giorno su una spiaggia nel mezzo di una lite. “Per caso” non vuol dire che egli non abbia voluto, che sia pazzo, ma che il suo atto è conseguenza ineluttabile dell’indifferenza verso il mondo. Al giudice non basta, vuole sapere perché tra il primo e il secondo sparo l’assassino ha fatto una pausa, vuole che l’imputato senta il peso della colpa e gli parla con un crocifisso in mano, ma Meursault non è pentito, perché non è Raskol’nikov che agisce per onnipotenza e poi sente il peso delle proprie azioni, non è Joseph K. che espia la colpa senza conoscere il delitto, no, Meursault è l’assassino assurdo, che non ha motivazioni, e dunque non “può” sentire alcuna colpa. Al giudice piacerebbe dare una spiegazione sociologica al fatto, e ci prova, accomunando il delitto di Meursault a quello di un parricida che dovrà essere giudicato il giorno seguente (e a mio avviso che ritrovasse anche qui un’eco “dostoevskiana”, più precisamente Karamazov, non sbaglierebbe), ma non può nulla, perché Meursault non sente colpa, al massimo “noia”. Il processo stesso diventa assurdo, perché l’omicidio passa in secondo piano, e la colpa più grande, agli occhi di accusatori, pubblico e persino avvocato difensore, diventa quella di non avere pianto al funerale della madre. Su questo punto, non si transige, sembra quasi che l’omicidio dell’arabo sulla spiaggia sia solo un evento veniale, e che Meursault debba pagare, a prescindere, per non avere pianto quel giorno accanto alla bara. Lui non accetta questo, e sente l’enorme sproporzione tra l’evento che l’ha visto protagonista e l’inadeguatezza di coloro che sono lì a questionare su dettagli che nulla hanno a che fare con quel drammatico avvenimento. In carcere Meursault, che non è ancora totalmente pietrificato, ha sussulti di umanità. No, nessun pentimento o crisi di coscienza alla Raskol’nikov (che peraltro le aveva da “libero”), solo dei momenti di debolezza quando si ritrova a fare “pensieri da uomo libero”, per esempio quando desidera Maria, il mare o una sigaretta. Non serve a nulla neanche il tentativo di un prete di metterlo di fronte a Dio, perché Meursault è un senza Dio, per essere più preciso ritiene che Dio, indipendentemente dalla sua esistenza (Meursault non crede) non ha nulla a che vedere con il mondo, e lui, Meursault, non sente alcun bisogno di essere salvato da Dio. Ed è proprio nel finale del libro, quando la condanna è inevitabile e Meursault sa che morirà, che il suo pensiero torna alla madre, e sente che anche lei, come lui, dovette aver provato la stessa “dolce indifferenza del mondo”, la stessa terribile indifferenza del mondo.

“Lo straniero” è un libro meraviglioso nella sua atrocità. Camus s’inserisce, a modo suo, nel solco che i suoi grandi autori di riferimento gli anno tracciato, e con la figura di questo indifferente, di questo “straniero” tra gli stranieri, prepara il terreno sul quale sorgeranno le sue opere degli anni a seguire, quelle sulla rivolta, sulla solidarietà come vincolo umano inderogabile. In altra circostanza aveva scritto che siamo “un formicaio di uomini soli”. In questo romanzo ha decritto una delle formiche e la sua indifferenza. Altrove troverà un rimedio all’assurdo, riuscirà a guardare il sole senza restarne accecato.